Salviamo l’Erasmus!

Erasmus è una nuova città, nuovi amici, una nuova vita. Erasmus è cavarsela da soli, è l’aiuto di un tedesco appena conosciuto, è dover parlare un’altra lingua – almeno – oltre all’italiano. Erasmus è diventare matto per compilare il Learning Agreement, è tanta burocrazia con la speranza di poter dire un giorno: “sì, ne è valsa la pena!”.
Sono in Portogallo da poco più di un mese: sono solo all’inizio di quest’esperienza ma forse qualcosa l’ho già capita e proverò a trasmettervela.

Atterro a Lisbona in una calda serata di fine agosto. So che qualcosa di nuovo sta iniziando, un’altra pagina della mia vita verrà scritta. Ma non me ne rendo ancora conto.
Vado in ostello, il giorno seguente inizio a cercare una casa, un’odissea per molti studenti erasmus. Poi le prime conoscenze, le prime feste, le prime difficoltà con una lingua tremendamente complessa seppur vicina all’italiano. L’inglese risolve però la gran parte dei problemi, non temete.

Il Portogallo non è la Svezia, è risaputo. La mia università portoghese risulta però comunque più organizzata dell’Università di Bologna. Anche il metodo d’apprendimento è differente: classi poco numerose, rapporto studente-professore, compiti per casa. Pensi per un attimo di essere tornato al liceo. Ma è solo un sogno dal quale mi sveglio quando, al secondo giorno di lezione, mi ritrovo a fare una presentazione sulla condizione delle coppie omosessuali in Italia; davanti a me, una classe attenta, silenziosa. Inizio a parlare, la voce mi trema, poi si schiarisce. Di cose da dire ne ho tante, provo a essere il più imparziale possibile ma non credo di riuscirci dato l’argomento che devo trattare. Alla fine sembrano tutti soddisfatti. Torno al posto, sorridendo sotto i baffi, che non ho.

Le giornate non scorrono in maniera diametralmente opposta a quelle trascorse per due anni a Bologna. Corsi, pranzi frugali, il riordinare gli appunti ogni tanto, spesa proletaria, birre della buona notte. Le stesse cose. Il tutto però è elevato al quadrato, forse al cubo. Sarà forse che si respira un’aria internazionale, e non solo all’interno dell’università, sarà dover prendere la metro invece che la bici per andare a lezione. Sicuramente c’è dell’altro, qualcosa di complesso da spiegare a parole, che vi auguro di provare sulla vostra pelle, di viverlo in prima persona.
Ve lo porterete dietro tutta la vita.

Erasmus è tante cose, alcune bellissime, altre meno. Non è certo tutto rose e fiori. Come ogni esperienza lontano da casa dopotutto. In poco più di un mese sono riuscito a infortunarmi giocando a basket con dei compagni di università (e le colline di Lisbona non sono simpatiche da scalare in stampelle!), sono stato buttato fuori di casa in seguito a una torbida storia. Ora dormo su un divano a casa di un’amica sperando che quando leggerete questo pezzo avrò di nuovo un tetto sopra la testa.
Queste e tante altre storie provo a raccontarle sul mio blog, forse più un diario di viaggio. Pensavo di non aver mai avuto la costanza di farlo e invece l’ho trovato tremendamente naturale e divertente. Mi piace l’idea di razionalizzare e condividere alcune esperienze, e farlo per iscritto è forse la cosa migliore.

Sarebbe giusto spendere qualche parola in favore del progetto Erasmus che compie 25 anni quest’anno. Ma non lo farò. Penso che dalle righe qui sopra già si possa capire che chi solo abbia pensato di abolirlo non sappia di cosa stia parlando. Perché quando sei in Erasmus rimani quel che sei, rimani italiano, pesarese nel mio caso, ma in più diventi qualcos’altro. E penso che tutti dovrebbero avere la possibilità di diventare quel qualcos’altro. Per questo dico, e continuerò a dire, giù le mani dall’Erasmus!

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In foto la compagna Judith, che vive e lotta insieme a noi.