Francesinhas, birre e monasteri – primo giorno

Ore 9.30 di una serata ventosa. Stazione degli autobus di Sete Rios. Tra poco il trabiccolo si metterà in moto, alla volta di Siviglia. Orario d’arrivo previsto: 5.45 di mattina. E senza wi-fi, sarà dura.
Ma questo viaggio ve lo racconterò più avanti, forse. Ora scriverò di un altro.

Finiti gli esami, aspettando l’inizio delle lezioni, si decide di organizzare una tre giorni per le Beiras, Estramadura e Ribatejo, regioni tra Lisbona e Porto. Partenza venerdì presto, ritorno domenica dopo cena. Siamo in tre: io, Giovanni e Edoardo.

Ci si vede alle 7.30 ad Alameda, così per le 7.45 circa siamo in aeroporto, sbrighiamo il carteggio e per le 8 partiamo. Ok per tutti? Sì.
Ore 7.30. Edoardo non pervenuto. Gli telefono. Non ha sentito la sveglia, dice. Incominciamo bene.
Io e Giovanni intanto prendiamo possesso della macchina e diciamo ad Edo di vedersi a Campo Grande, vicino allo stadio dello Sporting.

Gio: “Filo lo prendiamo il dispositivo-tipo-telepass?”, “per me possiamo anche no prenderlo, come vuoi te” rispondo. Segnatevi questo dialogo, ci tornerà utile più tardi.

Ci perdiamo quelle 4 volte nel giro di 2 minuti ma poi arriviamo. Vediamo arrivare Edo da lontano: trolley, camminata lenta e rilassata, champagnino in mano.

Si parte. Neanche un’ora di ritardo sulla tabella di marcia. Un’altra mezzora buona prima di capire che strada fare, con il TomTom che insisteva nel volerci far fare l’autostrada. O almeno noi così pensavamo.
Primo sfogo: per quale motivo mi mandi in autostrada se ti dico di evitare le strade a pedaggio? Per dio. Virgola. Cazzo. Punto.

Percorriamo strade strette, sulle quali è impossibile macinare kilometri velocemente. Il Portogallo rurale. Prescidibile, almeno di primo acchito.
Poi all’improvviso ci troviamo su un’autostrada. Una decina di chilometri poi usciamo. Strada normale per pochissimo, poi un altro pezzo di autostrada. Più cara quella italiana, così ad occhio.

Arriviamo ad Alcobaça, prima tappa. Attirati dal Mosterio de Santa Maria de Alcobaça, di cui avevamo letto buone cose. Entriamo nella chiesa: la combinazione tra l’ambizione gotica mischiata all’austerità cistercense ci colpisce all’istante.
Visitiamo il chiostro, il primo di una lunga serie in questa breve roadtrip. Apprezziamo lo stile manuelino del secondo piano, qualche foto a caso da parte dell’Edoardo e siam pronti per partire.

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Tappa successiva? Batalha.
Anche qui, come ad Alcobaça, l’unico motivo d’interesse è rappresentato dal monastero.
All’esterno, è un tripudio di pinnacoli e parapetti, archi rampanti e balaustre, finestre scolpite in stile gotico e gotico fiammeggiante.
Varcata la soglia, “si è subito trasportati in un altro mondo, dove la roccia massiccia è stata lavorata in forme delicate come fiocchi di neve e flessuose come una corda intrecciata”. Ecco, forse Gregos Clark – uno delle penne della guida – i fiocchi di neve li aveva visti in altre forme. Intendiamoci, tutto molto bello ma niente di epico come lasciava presagire.
Passiamo poi al Claustro Real e al Claustro de Dom Alfonso V. Belli ma le vere perle sono le Capelas Imperfeitas, cappelle prive di tetto. Suggestive.

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Prima di riprendere il viaggio, compriamo della broa de milho (impastata con farina di mais e grano saraceno: buona ma forse andava accompagnata a una fetta di prosciutto o simili), così, per fermare lo stomaco.

Siamo diretti ad Aveiro. Andremo a mangiare una francesinha al Mesa 7, uno dei migliori in zona secondo il portale francesinhas.pt.
Mettiamo l’indirizzo sul TomTom. Pronti. Via.

Neanche 20 minuti e prendiamo a nostra insaputa un’autostrada. Alla Scajola. Non ce ne accorgiamo finché un dispositivo non meglio identificato attaccato al cruscotto emette un bip. Usciamo appena possibile.
Sì, lo so, non ci avete capito niente. Ora vi spiego, anzi mi sfogo (per la secondo volta): qui in Portogallo, nella maggior parte delle autostrade c’è la possibilità di pagare brevi manu, mentre in altre o hai questo dispositivo-tipo-telepass o semplicemente non puoi percorrerle. Quando si dice: cose a caso. Ma veramente a caso. E senza senso.

Vi ricordate lo scambio di batture citato all’inizio? Bene, non avendo il dispositivo-tipo-telepass incorriamo in una simpatica multa da 79 euro (fortunatamente non ancora addebitata, ndr).

Manca poco. Siam carichi per ‘sta francesinha. Manca 1 km all’arrivo, siamo nella zona residenziale di Aveiro ma ci fidiamo. 300 metri, 100 metri, arrivo. L’edificio più vicino è una scuola e a meno che il posto che cerchiamo non sia la mensa scolastica, abbiamo sbagliato.
Ci accorgiamo di aver scritto l’indirizzo scambiando una ‘z’ per una ‘s’. Correggiamo fiduciosi. Pochi minuti alla nuova destinazione. Riusciamo a fare addirittura meglio (o peggio, se preferite): ora siamo in mezzo al nulla. Che non è il solito modo di dire, siamo proprio in mezzo al nulla. Volano delle madonne a caso, alcune rivolte al TomTom, altre, appunto, a caso.

Non senza rimpianti, decidiamo di far rotta verso il centro di Aveiro e mangiare dove capita. Parcheggiamo. Mi viene la brillante idea di intaccare i miei preziosi megabytes Moche e chiedere aiuto a Google Maps. Come al solito, apporto provvidenziale della Mela: giungiamo in pochi minuti a piedi all’agognata meta.
Il posto è vuoto ma c’è da dire che sono anche le 4 del pomeriggio. Francesinha per me e Gio, qualcosa di vegetariano per Edo.

Arriva. Qui una foto dall’alto.
Definirla gustosa è azzardato. Quella cosa rossa nella quale è immersa ha un sapore forte che tende a coprire gli altri. Difficile dare una valutazione oggettiva non avendo un metro di paragone. Gio invece ne aveva provata una a Lisbona: inferiore a questa, afferma.

Per capire cos’è una francesinha e come dovrebbe essere fatta una buona, leggere qui e qui.

In definitiva, direi che è un piatto che va provato. Ne mangiamo tante di porcate nella nostra vita. Questa almeno è una porcata originale.
E poi era tanto tempo che non finivo qualcosa al ristorante. Un buco in più alla cintura ci stava, due mi sembravano eccessivi.

Ci sarebbe piaciuto vedere cosa aveva da offrire Aveiro. Il problema è che non aveva nulla da offrire. Città anonima, a tratti kitsch, quasi imbarazzante.
Leggiamo che alcuni la chiamano, senza pudore, la ‘Venezia del Portogallo’ e ci viene la pelle d’oca. C’è una canale, dico un canale. Conto tre moliceiros – le gondole dei poveracci. C’è perfino un palazzo in stile art nuveau che si affaccia sul canale.
Non c’è nient’altro. Giuro. Incomincia a piovere, forte, a vento. Decidiamo che possiamo anche andarcene. 15 minuti sono stati decisamente troppi.

Sulla via di Coimbra, a un’oretta di macchina, Gio schernisce quel cane di Clark (quello dei fiocchi di neve per capirsi) con un “alcuni definiscono Venezia l’Aveiro italiana”. Si sdrammatizza.
La decretiamo all’unanimità la città più brutta di sempre. E non c’entra la pioggia fastidiosa, ve lo assicuro.

Ci sistemiamo in ostello. Bellissimo, posizione ottima nella parte alta della città. Dalla finestra ci godiamo la cattedrale Sé Velha.
Appoggiamo le cose e poi usciamo subito. Edo e Gio hanno fame così vaghiamo un po’ alla ricerca di qualcosa che ci ispiri . Si fanno quasi le 10, così chiamo Margherita – una ragazza italiana conosciuta qualche anno fa a Siena ed ora in erasmus a Coimbra. Mi faccio consigliare un posto e lei mi manda in una taverna nella parte bassa della città. Non sprecherò aggettivi per descriverla. Il video che segue vi darà un’idea dell’aria che si respirava.

La serata continua in un bar a trenta metri dall’ostello. Birre come se piovessero. Tequila a caso. Si fa una certa, neanche troppo tardi, tipo le 3, e vado a casa. Mi addormento in 5 secondi netti.
Il fine serata degli altri due compagni di viaggio lo conoscerò solo la mattina seguente. E sarà un finale interessante.

Ora però sono stanchino, gli altri due giorni ve li racconto un’altra volta, cercando magari anche di essere più didascalico.

Saluti da Siviglia che, nonostante le montagne di spazzatura per le strade, è bellissima.